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Quello che non avete mai visto non è detto che non esista. Smettetela di cercar di vedere, iniziate ad immaginare. Ciò che può esistere dovete prima sognarlo.

ZORAS

Ero ancora giovane quando con la ‘mia’ Fiat 500 blu (… di mamma) percorrevo i pochi chilometri che da casa mi dividevano dal parcheggio della Falesia di Rua.

Giunto lì, correvo veloce per la salita che, dal parcheggio, attraverso l’abitato di Lucci, conduceva alla parete di roccia attrezzata.

Passavo vicino al piccolo bar e percorrevo la vecchia stradina dove i boscaioli facevano scendere il legname. Passando per quelle vecchie case salutavo distrattamente il ‘vecchio’, un anziano il cui nome credo vagamente di ricordare fosse Zoras. In quei giorni il mio interesse principale non era certo lui, ma l’arrivare quanto prima alle rocce.

Ricordo che Zoras era sempre seduto immobile e silenzioso fuori dell’uscio di casa. Osservava. Non riuscivo a capacitarmi della sua immobilità! Specialmente dopo aver intravisto da una finestra socchiusa, una sera di ritorno, un paio di scarponi ed una corda impolverati sopra ad un armadio. Come poteva essere così apatico con oggetti simbolo di fatica ed avventura conservati in casa?! Molti alpinisti si fermavano a chiacchierare con lui. A volte con l’atteggiamento di chi chiede un consiglio. Ma mi sembrava solo un rituale, un’inutile perdita di tempo.

Io, invece, avevo molte cose da fare! Volevo andare su quelle magnifiche montagne che chiamavano Dolomiti e che mi sembravano infinitamente lontane e pericolose.

Quasi ogni pomeriggio andavo nella palestra di roccia: era il mio mondo. Anche se stracolma di gente io, il solitario, trovavo sempre dove salire e scendere senza tregua e senza scambiare una parola con nessuno. Intriso nel mio sforzo ed impegno, amavo una frase letta a scuola: “Non si volta chi a stella è fisso.

In un giorno di calura, di afa, un ragazzino mi si avvicinò. Lo avevo più volte visto parlare sempre con tutti. Spesso, tornando tardi la sera, lo vedevo seduto col ‘vecchio’ sul bordo della fontana della piazzetta. Quel giorno mi fece molte domande. Mi chiese mille cose! Io rispondevo distrattamente e freddamente. Però dimostrava di sapere molte cose sull’alpinismo. Mi sembrava d’intuire che da tempo frequentasse ‘l’ambiente’ e che avesse scalato le Dolomiti. Non riuscivo a capacitarmene, era un ragazzetto dall’aspetto gracile, il fisico sembrava denutrito e la sua età doveva essere molto inferiore alla mia. Non che io a quel tempo fossi stato un esperto, ma mi sentivo un ‘vecchio’, tanti erano i mesi passati in quel mondo tutto mio. Dopo questo incontro decisi che l’estate successiva sarebbe stata decisiva. Era tempo di andare sulle Dolomiti! Avevo vent’anni e quei primi mesi del 1970 erano fulgidi di speranza e coraggio.

Certo non era facile trovare un compagno che mi portasse per la prima volta in ‘ambiente’. Il clima tra gli alpinisti forti era glaciale. Tanto più verso i giovani, che dovevano solo fare ‘gavetta’. Una ‘gavetta’ che non sembrava finire mai! Prima di salire con loro, nel ‘loro’ mondo, bisognava dimostrare di esserne capaci. Ma se nessuno mi portava, come potevo fare ‘gavetta’? Come potevo dimostrare le mie capacità?

Decisi!

La soluzione era andare sulle Dolomiti e salire da solo, come sempre avevo fatto fino a quel momento in palestra.

Fu difficile e duro, ma ci riuscii. Riuscii a compiere la mia prima ascensione in Dolomiti e, per di più, ‘in solitaria’! Non avevo più bisogno di nessuno: salivo e scendevo continuamente da ogni cima su vie sempre più difficili. Avevo trovato il mio nuovo mondo. Ogni salita era una nuova ed importante esperienza da cui ricavare utili nozioni anche per la vita quotidiana.

Saltuariamente rivedevo il gracile ragazzetto. Era sempre là a chiedere, ad interrogare, a vivere esperienze di altri. In certi momenti i suoi occhi erano lucenti come i miei quando arrivavo su di una vetta e spesso glielo dicevo. Gli spiegavo le mie vere emozioni di alpinista, ma lui mi sembrava sempre più ‘ricco’ di me. A volte credevo di essere io ad acquisire le sue esperienze. Eppure non l’avevo mai visto arrampicare e non l’avevo mai visto andare oltre quell’orizzonte, per me oramai strettissimo, della falesia di Rua.

Oggi, nel mio rione a Lucci, dove mi sono trasferito da qualche mese, resto spesso seduto fuori di casa a guardare i giovani che si preparano ad andare o a tornare dalle magiche Dolomiti, o da montagne ancora più lontane. Le mie vecchie scarpette sono sopra l’armadio a prendere polvere. Molto tempo è passato dalla mia giovinezza e mi crogiolo nei ricordi.

Godo, ora, nell’immedesimarmi in questi ragazzi. Avrei voglia di parlare con loro ma hanno tutti troppa fretta e così aspetto. Quando i ricordi si aprono una breccia nel mio cuore, ripenso a quel ‘ragazzetto’. Abita poco lontano da me. Durante le mie lente passeggiate di anziano, lo vedo occasionalmente seduto nella piazzetta, accanto alla fontana … immobile sulla sua sedia. Mi fermo a volte ad ascoltarlo. A volte assieme a qualche altro alpinista. Parla poco, con una calma ascetica. Racconta con poche parole, ma con occhi vivi e persi, di mille esperienze e pochi amici, ora per lo più accolti tra le nuvole.

In questi giorni ho saputo che si dice non si sia mai allontanato da questi luoghi. Ma non ci credo. La sua vita sembra un concentrato di innumerevoli vite. E’ più misteriosa di quanto mostri. E’ invece un dispensatore di buoni consigli che dona a chi vuole accostarsi a lui per andare poi più lontano. Forse quelle persone, a cui rivolgeva sempre la parola da giovane, gli hanno trasferito, goccia dopo goccia, domanda dopo domanda, mille esperienze. Tuttavia sono convinto abbia ben vissuto la sua vita! Forse di nascosto.

Disegno di Chris Benchetler tratto da Skialper Ott. 2021

Riflettendo, credo sia proprio questa l’arte di ascoltare, alla quale, durante la mia frenetica giovinezza, non ho mai dato importanza e vedo che anche oggi non riscuote interesse. Un’arte che ho snobbato a tal punto da non aver mai prestato attenzione, nemmeno adesso, al nome del mio ‘giovane amico’.

Ieri sera, in un’afosa serata di fine estate, ho festeggiato in solitudine il mio 73esimo compleanno e ho visto un ragazzo attardarsi con il mio consumato ‘vecchio amico’ e, salutandolo, l’ha chiamato per nome: Zoras.

PS. Ci sarà sempre un Zoras (*) nelle nostre vite!

* Zora (in cirillico: Зора) è un nome proprio di persona slavo femminile, più specificatamente ceco, slovacco, croato, sloveno, serbo, bulgaro e macedone. Deriva dall’omonimo termine slavo occidentale che significa “alba”,”aurora”. Ha quindi lo stesso significato dei nomi: Alba,  Dawn,  Hajna,  Aurora, Zaria Rossana e Aušra.