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Sono salito in montagna passando per la Falesia di Rua con la speranza di incontrare Zoras. Le sue idee mi accompagnano, ma a volte le scordo, ne perdo il contenuto, il senso, l’entusiasmo. Non c’è nulla di strano, la vita è frenetica, è ‘assorbente’, troppo invasiva. 

Spesso mi è sufficiente ripensare a Zoras per recuperare il mio baricentro, il centro di gravità…che però non è permanente; solo la fuga tra la natura mi permette di ritrovarmi/ritrovarlo. 

La Falesia è ancora deserta, questa è una primavera strana. Ha fatto un inverno abbastanza mite, con poca neve, ma la primavera tarda ad arrivare ed il freddo sembra molto più pungente di quanto lo è realmente.

Risalgo in auto la valle e mi preparo per la mia meta. Abbandono l’auto nella radura del bosco a fine carrareccia e, con il mio zaino pesantissimo, parto per i tre giorni di attraversata sul crinale, in solitaria, con la tenda, che mi sono programmato. 

Non c’è nulla di speciale in quello che faccio. Avventure e situazioni simili sono quotidianamente vissute da centinaia di persone. Quello che è diverso può essere solo le scelte che compiamo in questi momenti e come le viviamo. In sostanza non sono nessuno, o meglio, sono un nessuno qualunque che cerca emozioni. 

Non mi dilungo molto sulla salita, sulla difficoltà di trovare un posto adatto per la tenda, sul piacere poi di prepararmi la cena ed infine sul sorseggiare un caffè caldo godendo del tramonto. 

Il momento del buio è sempre quello più ‘fastidioso’. Paure ancestrali prendono il sopravvento. Ogni rumore apre ad immagini che so, sono irreali e frutto solo dell’istinto di sopravvivenza insito in ognuno. Cerco di dormire. La scelta del caffè però forse non è stata una buona idea.

La notte comunque passa e favorisce l’arrivo di un’alba che non può vedermi ancora a poltrire nel sacco a pelo. Apro perciò la zip della tenda e me la godo in tutto il suo splendore; sino ai primi raggi di sole che sono un dono divino: riscaldano anima e corpo.

La giornata prosegue senza intoppi, ben lontano dai pericoli terrifici immaginati la sera prima. In solitudine, percorro sentieri non conosciuti ma ben tracciati. Dopo un po’ nasce il desiderio di incontrare qualcuno, anche solo per un fugace saluto, ma niente. 

Durante la seconda sera ripercorro gli stessi movimenti e le emozioni della sera precedente. Ho la fortuna di aver trovato giorni sereni, freddi, limpidi. Sostituisco solo il caffè con una più rilassante camomilla. 

Nelle prime ore dell’alba, ancora immerso nel buio che si sta lentamente predisponendo a raggiungere altri lembi del pianeta, mi sento solo. Sento un freddo interno, che non proviene dal fisico ma dall’anima. In momenti come questo ripenso alle ‘pazzie’ dello ‘strano’ Zoras, il pirata. Pirata perché, come me, condivide alcuni loro ideali protetti e praticati tra di loro: l’uguaglianza, il rispetto, l’anarchia, la libertà, il rischio, l’anti-autoritarismo, ed ama non essere omologato, ama essere sfuggente, non lasciare tracce, insomma: un fuorilegge romantico.

Zoras, questa assenza quindi cos’è?

Sono al terzo giorno. Quella che doveva essere un’escursione che doveva rimettere in forma la mia anima, mi ha solo scombussolato ulteriormente. Capisco che vivere le emozioni e la felicità intrinseca alle stesse, non funziona se non le si condividono. Ho amicizie che non mi seguono, che non riescono a comprendere la luce nei miei occhi quando mi avventuro in nuove esperienze, ma restano comunque assai preziose. Ma mi rendo conto che avere amicizie con cui condividere le esperienze è un acceleratore di felicità.

Maledisco Zoras. 

Queste sono le sue zone. In tre giorni completi tra questi monti solitamente lo si incontra o perlomeno lo intravedi da qualche parte (anche se il più delle volte senti solo i suoi melodici canti da appeso su qualche parete). Poi sposto il pensiero dal mio ego al suo e mi balena la possibilità che non stia bene, che si sia fatto male. E torno di nuovo a maledirlo. La sua solitudine, il suo essere sfuggente, quella sua malsana idea di “ti trovo io”, non mi ha mai fatto ottenere i suoi recapiti telefonici. A Lucci ha la sua dimora, tuttavia dai primi anni 2000 si è spostato per lo più a vivere in una baita tra i suoi boschi.

Lo odio. 

Mi odio. Io sempre impegnato ad ascoltare le mie esigenze, convinto che i luoghi e le persone saranno sempre lì.

Da giovane avevo la presunzione di credermi ‘onnipotente’. Pensavo di avere davanti infiniti possibili futuri e credevo di poter decidere quale scegliere; oltre a poter governare ogni aspetto della mia vita. In più, forse per l’incapacità di percepire il tempo che scorre, la vita mi sembrava quasi infinita. Avevo l’errata convinzione di avere tutto il tempo per poter assecondare intanto futili e banali desideri, lasciando per un secondo momento le cose più importanti.

Poi, in tempi che per ognuno sono diversi (chi nel letto di malattia, chi nel letto di morte, chi al compimento di una certa età) arriva il repentino e auspicabile cambio di rotta! Ho iniziato quindi a pianificare, in modo a volte compulsivo e maniacale, ogni minuto della mia vita nel tentativo di non sprecarne più nemmeno un attimo. Ho accarezzato l’idea di poter veramente controllare totalmente gli eventi della mia vita. Ho creato piani, più o meno fantasiosi o realistici, sul futuro. Per rassicurarmi, ho creato una sequenza lineare di eventi…che però la vita non era tenuta a seguire. Per fortuna! Se li avesse seguiti sarei stato solo un semplice attore in una coreografia ed una storia che avevo già scritta. Noioso, banale. La vita invece mi ha riservato sorprese, imprevisti e colpi di scena; belli o meno belli, che mi hanno lasciato completamente disorientato e succube, se non fossi stato flessibile, reattivo ed aperto al futuro. 

Solo ora mi rendo conto di cosa vuol dire essere solo. Non è l’essere solo ‘fisico’, ma il non aver più nessuno, a cui tieni. Che ti pensi. Con cui condividere. Che capisca. Perché…non c’è più. Oppure perché l’hai lasciato/a indietro.

Zoras, questa assenza cos’è? E’ questo?

Nel frattempo, non mi rendo conto che sono arrivato all’auto e sono appoggiato ad essa in lacrime. È un pianto aperto, liberatorio. Mi sembra di aver ritrovato il baricentro perso. 

Lascio fluire le lacrime. Ogni goccia che cade libera spazio nell’anima. 

Senza farci più di tanto caso, prendo un ‘fazzoletto’ di carta igienica che mi viene offerto. Mi asciugo le lacrime e poi lo restituisco come fosse una situazione naturale. La mia attenzione è concentrata tutta sui miei sentimenti. Ma la mano estranea mi fa cenno che posso tenerlo. Il silenzio, il non luogo, l’assenza di profumi di qualche minuto fa spariscono a causa di un olezzo nauseabondo che mi riporta nel qui e ora.

Guardo alla mia destra e vedo Zoras che mi osserva come fossi un extraterrestre. Non so se continuare a piangere o a mettermi a ridere!

Lo guardo interrogativo. Avrà capito che gli sto chiedendo cosa gli è successo?

Zoras si siede su di un sasso. È evidente che è stanco, sporco, puzzolente ed affamato. È come un invito a calmarmi, a tirare fuori il fornelletto e a farci un thè. È evidente, però, che è lui che si sta chiedendo cosa mi sia successo.

Sorseggiando la calda bevanda che scalda il corpo, Zoras sposta l’ispida barba ed inizia a spiegare con la sua voce bassa e calda che scalda la mia anima: “Non avremmo mai potuto incontrarci.” 

E’ partito due giorni prima per la traversata di tutta la cresta che circonda la Valle. Ma senza tenda, senza zaino, senza niente. Ininterrottamente, con l’intenzione di muoversi anche di notte, con il chiarore della luna piena di queste notti estremamente limpide e chiare. Anche lui ha bisogno, come tutti noi, di ricaricarsi. Di trovare il centro di gravità che non è permanente. Lui lo deve fare spingendosi al suo limite fisico.

Come sapesse che io avevo bisogno di parlare, di confrontarmi, mi spiega che per gran parte della nostra vita preistorica abbiamo abitato in mezzo agli elementi, con l’acqua, il vento, gli alberi. Muovendoci, muovendoci in continuazione. Come cacciatori, come raccoglitori, come pescatori, percorrendo chilometri gravati da pesi sulle spalle (legna, acqua, carcasse di animali, prole piccola). Vivere come facciamo ora, ricurvi in giungle di cemento, ci è ‘estraneo’. Abbiamo dimenticato il nostro bisogno fisiologico di ‘immergere’ i nostri corpi nella natura. E soprattutto di muoverci, muoverci…camminare, piegarci, allungarci, sollevare, nuotare, scalare.

I nostri corpi traggono beneficio da qualche difficoltà. Un po’ di caldo, un po’ di freddo, un po’ di fame, un po’ di sforzo fisico, un po’ di ipossia, sono tutti modi per attivare reazioni che aiutano a difenderci dalle malattie. Non c’è quindi nulla da temere da brevi periodi di difficoltà fisica, anzi.

Solo dopo lui può tornare ad incontrare gente. Che lo capiscano o meno, ma con cui lui, dopo, riesce a stare, divertendosi. Con alcuni di più, con altri di meno. Sino alla successiva ‘crisi’. 

La sensazione liberatoria di pianto che ho avuto non c’entra niente quindi con lui. Nella prima notte ho avuto ‘paure ancestrali terrifiche’, dettate dalle paure per la sopravvivenza dei nostri avi; la seconda notte mi ha, invece, riportato ‘a casa’, e vedere una ‘casa vuota’ mi ha fatto stare male. Ma parlare con lui, condividere le nostre esperienze, mi ha fatto capire che sono emozioni ‘normali’. Utili se gestite ed usate per quello che vogliono essere: liberatorie e portatrici di consapevolezza. Utili…a riempire la casa.

Come sempre, il tempo di ascoltarlo e lui sparisce. 

Guardo la cresta. 

Quella piccola porzione che ho percorso io. Poi la guardo tutta, quella che ha percorso lui. E penso che alcuni dei miei ricordi più vividi sono proprio associati a nuotate in acque gelide, infreddolito fino al midollo, oppure a una sete assillante e angosciosa, a un’oscurità così fitta da togliere il fiato, a un silenzio rotto solo dal flebile mio respiro. La natura vera, selvaggia, è parte essenziale per la mia sopravvivenza. È bello sapere che lo è anche per altri. E non necessariamente per tutti coloro che ho vicini. Ora, so come e con chi riempire la ‘casa’. 

Zoras, questa assenza so cos’è! 

Non sono uno scrittore, sono un semplice cronista della mia vita e riverso la mia anima in ogni incontro. Lascio la scrittura a chi viene meglio e che mi viene in aiuto per permettermi di portare alla luce i miei sentimenti e le mie sensazioni. E come secondo obiettivo quello di provare a condividerle e a coinvolgere altre persone.

Zoras

Completa il racconto con: L’ULTIMA AVVENTURA DI ZORAS